lunedì 29 ottobre 2012

La follia di Puškin

 




Не дай мне бог сойти с ума.
Нет, легче посох и сума;
Нет, легче труд и глад.
Не то, чтоб разумом моим
Я дорожил; не то, чтоб с ним
Расстаться был не рад:


Когда б оставили меня
На воле, как бы резво я
Пустился в темный лес!
Я пел бы в пламенном бреду,
Я забывался бы в чаду
Нестройных, чудных грез.


И я б заслушивался волн,
И я глядел бы, счастья полн,
В пустые небеса;
И силен, волен был бы я,
Как вихорь, роющий поля,
Ломающий леса.


Да вот беда: сойди с ума,
И страшен будешь как чума,
Как раз тебя запрут,
Посадят на цепь дурака
И сквозь решетку как зверка
Дразнить тебя придут.


А ночью слышать буду я
Не голос яркий соловья,
Не шум глухой дубров —
А крик товарищей моих,
Да брань смотрителей ночных,
Да визг, да звон оков.








Non voglia Dio ch'esca di senno.
No, meglio vincastro e bisaccia;
No, meglio fatica e digiuno.
Non perché il raziocinio mio
Io abbia caro; non perché di lui
liberarmi non sia contento:


Se lasciassero a me fare
In libertà, come veloce io
M'immergerei nella foresta oscura!
Io canterei nel mio delirio ardente,
Io mi perderei nell'obnubilamento
Di vaghi sogni meravigliosi.


E io mi disporrei ad ascoltar le onde,
E io guarderei, di gioia colmo,
Nei cieli vuoti;
E forte, libero sarei io.
Vortice che solca i campi,
Che spezza i boschi.


Ma ecco il guaio: s'esci di senno,
Fai paura come la peste,
Subito ti rinchiuderanno,
In catene come un matto
E nella gabbia come un animale
Ti verranno a stuzzicare.


E di notte non sentirò io
Il canto chiaro dell'usignolo,
Il suono sordo dei querceti;
Ma l'urlo dei compagni miei,
Le ingiurie dei guardiani notturni,
Strida e tintinnio di ceppi.


1833


 
Puškin ha scritto questa poesia nel 1833, più o meno mentre lavorava a La donna di picche e Il cavaliere di bronzo. Tutte opere che si immergono nella foresta oscura della follia, scrutata, analizzata minuziosamente (nella prosa soprattutto, che permette il discorso largo, articolato e prende in esame le cause, l'evoluzione). Ma qui il mistero del Puškin solare riluce in tutto il suo abbaglio. La levigata scivolosità della superficie sdrucciola nel buio profondo dell'abisso. Profondo doppio fondo. Il pensiero volta e si rivolta, vien la vertigine a seguire le capovolte di quel vortice che libero "solca i campi e spezza i boschi".
La follia da cui si chiede scampo è in realtà il nostro io più vero. Assoluto, ab-solutus, sciolto, assolto grazie a una liberatoria immersione in sé (nell'ascolto del "rombo ultraterreno di radici e viscere" di Pasternak). Gioioso, a casa propria tra tutti gli elementi, si perde nell'ascolto delle onde, nella contemplazione dei cieli (vuoti, infiniti ma non opprimenti). Solca i campi. Ara, buca, affonda nelle loro zolle. Monitorizza il creato. Acqua, aria e terra. Il fuoco è lui, Puškin, l'io del poeta, che si rincorre e ricorre anaforico in fine o inizio verso e spazza potente la terra intera come un vortice.
Ma ecco ancora una capovolta che è un grido di accusa, esistenziale, sociale e anche fortemente politico. Se sei così ti rinchiudono. La libertà si fa catena, società e potere ti mettono dentro perché ti temono come la peste. Hanno paura e ti affidano alla crudeltà coatta di carcerieri disumani. Le strida e il tintinnio dei ceppi, l'urlo (uno solo, all'unisono) dei molti compagni di sventura coprono anche l'ultima risorsa del poeta: la sua poesia ("canto chiaro dell'usignolo e rumore sordo dei querceti").

Il disegno (via wikipedia), anch'esso del 1833, è un autografo di Puškin sul manoscritto del Cavaliere di Bronzo. Raffigura Natal'ja Gončarova, la moglie del poeta.

4 commenti:

  1. Oh, la sacra follia degli artisti!
    E' quella che ci salva dalla "normopatia"...

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  2. ah Marisa! adesso che ci penso forse questa era una trappola per te :) A prestissimo

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  3. Ma siamo poi sicuri che sia un inno alla manìa, questo di Puskin? Io più che l'impedimento ci leggo il rifiuto consapevolmente assunto. La follia è un grande mito letterario che pochi percorrono fino in fondo, anche se molti se ne ammantano: nessuno dice mai che, a parte Lenz, i poeti dello Sturm und Drang (il primo riferimento che mi viene legato a quest'epoca) furono ben lontani da quell'eccesso a lungo predicato. Qui c'è molto di più, mi pare: ci sono catene e prigioni reali, e quel grido all'unisono ha nomi e cognomi, e sono quelli dei decabristi. La poesia è imprigionata nel testo, eppure solo nella prigionia può farsi voce e vita. Lasciamo ad altri la dolcezza delle melodie non udite e dell'ineffabile ("Heard melodies are sweet, but unheard are sweeter" diceva, mi pare, Keats)... qui il silenzio è un dato di partenza, è costrizione, è oblio.

    Un abbraccio,
    Massimiliano

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  4. Sì, hai ragione, Massimiliano, anche tu. La dimensione concreta e politica e forte, e la consapevolezza della rinuncia alla sacra mania lo è altrettanto. Ma forse ancora più forte è l'attrazione per la follia, per la possibilità intima di farsi consonanza con gli elementi e lasciare andare la propria forza non più imbrigliata. E poi cosa significherà "meglio il vincastro e la bisaccia", cioè, andare a chiedere l'elemosina, farsi mendicante che, mi pare, sta a dire la sua condizione attuale, di non chi non ha scelto la follia e dunque ha scelto la fatica (ma avrei dovuto tradurre il lavoro? trud)? Sta parlando di sé, Puškin, poeta che bazzica la corte, mentre i suoi amici decabristi stanno come animali in gabbia?

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